RB 4,56 – Prostrarsi frequentemente nella preghiera.

Questa indicazione può apparirci un po’ strana oggi, perché abbiamo perso molto della dimensione corporea della preghiera. Nella chiesa antica era prassi comune il prostrarsi a terra durante la preghiera, fare una metanoia; era un modo normale di esprimere anche con il corpo il desiderio di conversione, l’invocazione a Dio. Il termine che in greco significa conversione, pentimento, è passato a indicare anche il gesto della profonda prostrazione a terra che si fa nella preghiera.

Soprattutto noi occidentali rischiamo di ridurre la preghiera alla sola sfera celebrale, a una questione di attenzione e riflessione. La liturgia, ma prima ancora Gesù stesso, ci insegna che la parola va accompagnata con i gesti. Cosa che noi facciamo nella vita quotidiana senza neppure accorgerci. Quando salutiamo una persona non ci limitiamo a una parola, ma l’accompagniamo con un gesto, e in questo tempo in cui non si possono stringere le mani ce ne accorgiamo più facilmente. Ma anche per esprimere il nostro affetto a una persona, non ci limitiamo a dirgli che l’amiamo, ma aggiungiamo un gesto, come un dono o una carezza.

Siamo allora invitati a riscoprire una dimensione espressiva della preghiera che abbiamo un po’ persa. Non importa quale gesti, ma è importante che troviamo il modo di accompagnare le nostre parole con il nostro corpo. Può essere il mettersi in ginocchio, l’elevare le mani al cielo, il prostrarsi a terra, ecc. La tradizione ortodossa ha conservato di più questa dimensione espressiva sia nella liturgia che nella preghiera personale dei fedeli.

In realtà siamo noi che ne abbiamo bisogno. Questo ci permette di entrare più profondamente nella relazione con Dio e permettiamo che questa segni e trasformi la nostra vita. La dimensione gestuale e simbolica non può essere estromessa dalla nostra preghiera, perché fa parte di noi. Dobbiamo fare la fatica di riscoprirla e di reinterpretarla perché parli a noi.