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RB 4,64 – Amare la castità

“Amare” è molto di più e completamente diverso da “osservare”. Significa aver scoperto il valore e come è sorgente di vita e gioia. Fin quando ci fermiamo solo all’aspetto pratico o formale, ogni indicazione della Regola rischia di essere un peso. Gesù nella sua predicazione si è scagliato non contro la legge, ma un certo modo di praticarla e insegnarla, e per questo ci ha lasciato anche degli esempi di “assunzione” (cfr. Mt 5,21-48).

Non ci si può fermare o limitare a una castità del corpo o a una sua comprensione riduttiva alla sfera sessuale. Castità è libertà del cuore per amare in modo profondo e libero. Occorre allora scoprire cosa è e cosa mi vuole donare la castità. Infatti essa si traduce in modi differenti nel cammino di chi ha fatto scelte vocazionali diverse, ad esempio per chi ha scelto il matrimonio o chi di consacrarsi a Dio nella vita religiosa.

Possiamo descriverla come amore preferenziale per qualcuno, che cioè mette al primo posto, preferisce, una persona. Preferire non significa che non ama altri, ma non nello stesso modo e con la stessa intensità. Per un consacrato questo amore preferenziale per Dio si traduce anche nella scelta di non esercitare la propria sessualità, espressione di una donazione intima e profonda. Per una persona sposata questo amore preferenziale si traduce nella fedeltà al coniuge e nel vivere e condividere solo con lui questa sfera. Non è quindi solo una questione di gestione della sessualità, ma di un modo di amare.

Imparare a vivere la castità allora è un cammino per imparare ad amare in modo profondo, che sa donarsi, cioè rinunciare a qualcosa di sé per il bene dell’altro. Senza capacità di donazione l’amore si spegne e inaridisce perché una relazione ha bisogno di offerta, di perdono, di pazienza, di comprensione, di ascolto, di accoglienza. Amare la castità significa desiderare percorrere questo cammino per crescere nella capacità di amare, senza rimanere prigioniero di riduzioni auto-compensative o auto-referenziali.

RB 4,63 – Mettere in pratica ogni giorno i comandamenti del Signore.

La Regola è molto concreta. Per capire occorre iniziare a vivere, a mettere in pratica. “I comandi del Signore” è un’indicazione generica che riassume e indica tutto ciò che Dio si aspetta da noi. Non si può ridurre ai dieci comandamenti o a un numero ben preciso di norme, perché non ci è chiesta un’obbedienza formale o esteriore, ma una comunione di vita.

Dio non ci chiede di comportarci da servi, ma di diventare amici, concittadini, figli. Spera cioè che noi condividiamo e facciamo nostro il suo cuore, i suoi desideri, che sono la nostra pienezza. I comandamenti ci indicano la direzione in cui muoverci, i passi da iniziare a compiere per capire ciò che ci chiede. Per essere capito, il vangelo deve essere vissuto. Iniziando a viverlo nasceranno in noi domande che ci aiuteranno a scavare e a cercare più in profondità e quindi a vivere anche in modo diverso ciò che prima abbiamo solo abbozzato.

E’ un po’ come in una relazione. Per conoscersi non ci si può limitare a guardarsi e a parlare, occorre incominciare a “condividere”, cioè a vivere insieme delle esperienze. Queste ci aiuteranno a capirci e ci faranno sorgere curiosità, domande, che ci permetteranno di approfondire la relazione. Il vangelo non lo si può capire a tavolino, ma solo iniziando a viverlo.

L’altra indicazione contenuta in questo versetto è “ogni giorno”, cioè la costanza, la fedeltà. Perché le cose portino frutto abbisognano di tempo, di perseveranza. Noi non cresciamo, non cambiamo in modo repentino o a intermittenza. La natura ci insegna che ogni cosa ha i suoi tempi e questi richiedono pazienza e costanza, ma donano consolazione e gratificazione. Ma ci insegna anche che le cose si realizzano pian piano, passo dopo passo, un po’ alla volta. Non bisogna cioè spaventarsi per ciò che ci aspetta, ma affrontarlo con fiducia e misura. Una montagna la si scala a piccoli passi.

RB 4,62 – Non voler essere considerato santo prima di esserlo, ma diventarlo realmente perché lo si possa dire con più verità.

Questo invito di Benedetto oggi ci sembra molto strano e possiamo pensare che non ci riguardi. Ma se al posto di “santo” ci mettiamo qualche altra immagine ci accorgiamo che non è poi così inusuale. A volte infatti capita che per desiderio di stima speriamo che gli altri ci considerino molto di più di quello che in realtà siamo o siamo in grado di fare.

E’ un richiamo all’autenticità e alla coerenza. Facciamo bene a desiderare e a impegnarci per cose grandi, che hanno valore (aspirate ai carismi più grandi 1Cor 12,31). Non si trappa però di apparire, ma di essere. Questo non è un richiamo ad abbassare le speranze e gli impegni, ma al contrario, a lavorare sodo per raggiungerli in verità. Le grandi mete però sappiamo che richiedono tempo e costanza. Ma sono queste che danno vero valore e senso alla nostra vita.

Ma queste parole possono essere anche l’occasione per riflettere su cosa pensiamo sia la santità. Questa dovrebbe essere la meta e il desiderio di ogni credente. E’ interessante l’uso che San Paolo fa di questo termine nelle sue lettere. Lui chiama santi i suoi interlocutori (cfr. Ef 1,1 Ai santi che sono a Efeso credenti in Cristo Gesù). Sempre in questa lettera troviamo un passaggio che ci può illuminare: ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità (Ef 1,4). E’ l’amore e la fede che ci rendono santi, non la perfezione. Santi si diventa imparando ad amare come siamo amati da Dio e fidandoci-affidandoci a Lui. I santi non sono super-eroi, ma innamorati. Uomini e donne illuminati e guidati dall’amore. Siamo stati creati per amare e per questo la pienezza, la realizzazione di una persona è nell’amore. Ma questo cammino possiamo compierlo solo con l’aiuto di Dio che è la sorgente dell’amore.

RB 4,61 – Obbedire in tutto agli ordini dell’abate anche se – ma non sia mai! – egli stesso agisse diversamente. In tal caso ricordarsi della parola del Signore: fate quello che dicono, ma non fate secondo le loro opere.

Benedetto è molto realista, non si stupisce della possibilità che l’abate sia incoerente. Ma questa per lui non è una scusa o una giustificazione per fare altrettanto. Non si obbedisce per fare un piacere all’abate, ma perché ci indica una via per vivere secondo il Vangelo, una via di salvezza e di vita. Si obbedisce alla Regola, che viene spiegata e applicata dall’abate, per il nostro bene.

Ciascun monaco si forma una coscienza con la quale può rendersi conto e riconoscere le infedeltà e incoerenze dell’abate o degli altri fratelli. Questo non per farsi accusatore o divisore della comunità. Benedetto infatti non dice di contestare l’abate, ma con la propria vita mostrare la corretta via. Potremmo dire richiamare l’abate con l’esempio della propria coerenza e fedeltà. Essere cioè positivamente motivo di conversione proponendo e non distruggendo. E’ più facile criticare e lamentarsi, più faticoso essere positivamente segni di coerenza per incoraggiare che non lo è.

Ogni membro della comunità è cioè invitato a farsi sostegno ed esempio con la propria vita e la propria parola. Se è vero che a volte questo sostegno deve essere una parola chiara che evidenzia l’incoerenza, nella maggior parte dei casi è un comportamento o una parola di incoraggiamento e di fiducia a fare di più e meglio. Normalmente porta più frutti incoraggiare e suggerire, che criticare. Scattano altrimenti meccanismi di difesa che portano a cercare giustificazioni e a non mettersi seriamente in discussione per cambiare.

Questo non vale solo per l’abate, ma per ogni fratello della comunità e ogni persona. Gesù stesso provocava la conversione con parole più di fiducia e incoraggiamento, che di accusa e lamentela.

RB 4,60 – Odiare la volontà propria.

Benedetto non vuole uomini senza volontà, ma non con una volontà individualista, che cioè non si pone e non si pensa come parte di un corpo, che è la comunità. Il cammino monastica, ma ogni cammino di maturazione umana, richiede forza di volontà nel prendere decisioni, a volte anche faticose. La stessa scelta di entrare in monastero non avrebbe consistenza senza una volontà libera e forte.

La questione è allora come educhiamo e formiamo la nostra volontà, per cosa la usiamo. Se come cemento che consolida la comunità, la famiglia, il gruppo, o come elemento difensivo per custodire la propria autonomia e individualità.

Potremmo esplicitare questa espressione così: odiare la volontà che isola. Siamo chiamati da Dio a costruire relazioni e a custodire quanti ci vivono accanto. Le nostre capacità, la nostra volontà, va giocata in questo modo, perché così sboccerà e porterà frutto la nostra vita. Una vita vissuta in modo difensivo, chiudendosi all’altro, è una vita soffocata che alla fine perde la gioia.

Progetti comunità

Già dal 2011 in comunità si era iniziato a parlare...
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