RB 5,17-18 – Infatti, se il discepolo obbedisce malvolentieri e mormora non già con le labbra ma anche soltanto nel segreto del suo cuore, pur eseguendo l’ordine, il suo agire non può essere gradito a Dio che vede il suo cuore scontento.

L’obbedienza di cui sta parlando Benedetto in questo capitolo non può fermarsi alle mani, deve giungere al cuore, deve cioè essere un processo di accoglienza e assunzione di un progetto. Se infatti facciamo solo per dovere, solo per far piacere a una persona, i gesti che compiamo non ci toccano e trasformano il cuore.

Il fare una cosa non comprendendone ancora il valore, ma con la disponibilità a mettersi in gioco e a scoprire cosa può portare di buono nella mia vita, è completamente diverso dal fare solo di facciata o controvoglia. Nel secondo caso il mio cuore è refrattario ad ogni possibilità di scoperta e cambiamento. L’iniziare con un dubbio o una perplessità, fa parte del cammino di scoperta. Ma il farlo avendo già deciso in cuore che non c’è nulla di buono è precludersi ogni possibilità.

E’ interessante la sottolineatura della mormorazione interiore e dello scontento del cuore. Quando incominciamo dentro di noi a lamentarci, a criticare, a denigrare, è come se ci mettiamo degli occhiali distorcenti che ci impediscono di guardare con serenità e verità la realtà che ci circonda. E questo atteggiamento porta alla scontentezza del cuore, che è molto più profonda e mortifera della fatica di fare qualcosa che non si comprende ancora in pienezza. La scontentezza avvelena la vita perché rende tutto pesante e senza senso. Ma ancor di più perché ci toglie la possibilità di vedere la novità che potrebbe farci uscire da questa situazione. L’obbedienza richiede fiducia. Mi fido che accogliendo questa parola posso scoprire e imparare qualcosa di nuovo, qualcosa che ora non vedo ancora. Obbedienza e fiducia vanno a braccetto.